Rassegna storica del Risorgimento

DUCCO LUDOVICO ; PROCESSI
anno <1941>   pagina <8>
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Giuseppe Solitro
sopra tutto per dar rilievo alla parte avuta da suo padre per distogliere i compagni dall' insistere in un tentativo che si presentava senza alcuna probabilità di riuscita.
Delle successive deposizioni di Antonio Dossi (gravissime quelle contenute nel IV costituto) a chiarimento di fatti già esposti e a com­promissione di persone, io non dirò qui d'avvantaggio, bastando il già detto al mio assunto, e a fissare la posizione rispettiva dei due Dossi, l'uno di fronte all'altro. Panni invece dovere di storico avvertire che, ad eccezione del conte Ducco, nessun altro degl'inquisiti bresciani offrì più di lui materiale abbondante e sicuro ai fini dell'inquisizione, nessuno più di lui contribuì a darle quello sviluppo che a ini certo momento parve eccessivo alla Commissione e allo stesso imperatore, cosi da consigliarne la limitazione dapprima, poi la sospensione.
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Dalle cose fin qui dette chiaro risulta- che di fronte alla legge, diversa era l'accusa e quindi la responsabilità penale dei due Dossi; che se l'Antonio, per le stesse sue confessioni era giustamente imputato di appartenenza alla Società dei Federati col grado di capitano, e come tale attivo propagatore di essa, e per di più in diretti e stretti rapporti coi capi del movimento; il padre Alessandro invece era accusato sol­tanto di correità per omessa denuncia, in base al paragr. 55 (cap. VII) del Codice penale; paragrafo che qui trascrivo integralmente anche perchè su di esso si fondò in parte la difesa, qui più avanti riportata.
Diceva esso paragrafo:
Anche colui che consideratamente tralascia di denunciare alla magistratura un reo d'alto tradimento, a luì noto, si fa correo di questo defitto, a meno che dalle circostanze non risulti che non ostante l'intralasciata denuncia, non era più a temersi alcuna perniciosa conseguenza. Tale correo è punito col duro carcere in vita.
H caso, senza dubbio doloroso, che metteva in certa guisa di fronte il padre e il figlio, richiama alla memoria altro consimile, ma assai più pietoso: quello di Adeodato Kessi, professore di diritto cambiario aH'UmverBità di Pavia, travolto nel processo di Venezia del 1820 per l'imperdonabile leggerezza d'un suo scolaro, il conte Giacomo Laderchi.
Né la differenza dei rapporti famigliari cambia la somiglianza dei due casi, che se nel primo si trattava di padre e di figlio, nel secondo erano di fronte non il maestro soltanto (bastevole del resto a renderlo