Rassegna storica del Risorgimento

AZEGLIO, MASSIMO TAPARELLI D'
anno <1949>   pagina <55>
immagine non disponibile

Massimo d'Azeglio tra palcoscenico e platea 55
Ma, molti armi prima, quando ancora cercava ansiosamente la sua via, aveva spesso pensato al teatro come ad un campo di azione diretta. E, pia di qualche volta, a Roma, chioso nello studio di Via due Macelli, o nell'altro accanto al palazzo delli Pupazzi , aveva messo da parte pennelli e modelli per dar vita sulla carta a personaggi :<fe tragedia o di commedia. Ma Bidone rimase sempre una ce mezza tragedia, perchè T autore, visto che il pius jieneus fin dal primo atto rischiava di snocciolare tutto quel che poi avrebbe fatto, piantò sul più. bello il lavoro, mandando al diavolo ce Enea, Bidone, Anna e tutta la compagnia e scrivendo snll'interrotto copione: un eroe che, dalla prima scena, dice quel che farà l'ultima, è un sorbetto. Invano, decisamente, il signor conte Alfieri aveva tenuto sulle sue ginocchia l'irrequieto Mammolino nello studio del Fabre: lo spirito tragico non aveva fatto troppa presa su lui.
Invece, nna commediola in un atto, che il Vaccalluzzo condanna in blocco con gli altri aborti letterari e lo stesso Massimo definisce <c scioccheria senza sugo, aveva dato all'Azeglio l'idea di poter fare qualche cosa di non affatto cattivo in questo genere. Ma anche la Clemenza di Federico, re di Prussia, che prendeva lo spunto dami aneddoto della vita del philosophe de Sans-Souci, non conobbe gli onori del palcoscenico. Didone era morta sul nascere, soffocata dal buon senso del futuro autore degli Ultimi casi, al quale non era simpatico Enea, che tratta l'eroina come un capriccio di viaggiatore, e, ancor più, riusciva impossibile appassionarsi per i pettegolezzi dell'antico Olimpo e le vendette di Venere, o Giunone, o Nettuno; la Clemenza fu stroncata, sul palcoscenico del Valle, dal Vesta con una di quelle oc­chiate che non lasciano possibilità d'appello. E l'Azeglio, che ci aveva letto dentro un povero lattarino, finisci di venir al mondo, prima di scriver commedie, non se lo fece dire due volte e se ne uscì al sole di Roma deluso nella sua ambizione d'autore drammatico. *)
Ma anche del tutto guarito? A giudicare da quel che egli stesso afferma nel ricor­dare l'episodio romano, non sembra si sia rassegnato tanto facilmente a non essere mai più ce scrittor di commedie, ma, anzi, in fondo all'anima, sia rimasto poco grato a chi gli tagliò le gambe d'un colpo. Perchè è vero che, se pure ce più volte quel­l'idea gli ce è venuta bussando all'uscio, per farsi aprire ed ammettere, l'ottimo Mas­simo l'ha ce sempre mandata a far benedire (e qui in un ce come Vostri mandò me par di cogliere non so che sfumatura d'amaro), ce addncendole non un pretesto, ma l'ottima ragione che in Italia non essendovi né lingua, né attori, né pubblico, è inu­tile pensare a scrivere commedie. Tutto esatto; ma questa pseudo giustificazione e l'accenno alla necessità di dover ce entrare in spiegazioni troppo lunghe sanno di ragionamenti d'età più tarda, venuti fuori tra la lettera al giovane Martini, di cui si dirà, e il ripiegamento moralistico dei Miei ricordi. Una più modesta verità si può cogliere in crocila stessa pagina: ce Eppure sarà superbia ho in mente che forse avrei potuto far qualche cosa di non affatto cattivo in questo genere.... E a leggere certi dialoghi e a guardar bene certo impianto e sceneggiatura di episodi nei suoi romanzi bisogna ammettere che Massimo non esagerava nell'apprezzamento.
Ancor più evidente la prova di questa sua capacità teatrale appare in quel deli­zioso lever de rideau che l'Azeglio regala ai suoi lettori (ma il primo a divcrtircisi è
i) Mini ricordi, ed. eit., pp, 188-190; N. VACCALLUZZO, Massimo d'Azeglio, Roma, 1025, pp. 18-20,334, 337. L'autografo della commedia si conserva nell'Archivio Storico cittadino di Livorno.