Rassegna storica del Risorgimento

1852-1853 ; BELFIORE ; PROCESSI ; CASTELLAZZO LUIGI ; MANTOVA
anno <1956>   pagina <137>
immagine non disponibile

Libri e periodici
137
Archiv di Weimar. Il Gambarin riuscì, superando non poche gravi difficoltà, ad ottenerne la riproduzione fotografica (e della sua pertinace costanza dobbiamo essergli ben grati). La stampa dell'esemplare è assai nitida, belli sono i caratteri e nel complesso è abbastanza corretta. Il frontispizio è preceduto dal ritratto dell'autore, lo stesso che accompagnerà l'edizione del 1802. Sostanzialmente (scrive il Gambarin) è la prima edizione rifatta, ma incompiuta, del romanzo; l'ispira* zione, i motivi e la stessa impostazione son quelli che appariranno nell'edizione dell'anno successivo, che però presenta lettere e brani di lettere che in quella non si riscontrano. Ciò potrebbe condurre alla conclusione che l'edizione del 1801 sia anteriore alla relazione del poeta con l'Arese; ma racmtre l'assenza di quei brani nulla comprova cronologicamente, la presenza di altri riscontri dà per certo (afferma il Gambarin) che rientra nel periodo della passione per l'Arese anche questa edizione. H volumetto di Weimar uscì sulla fine del 1801 (proba­bilmente la tiratura si limitò a poche copie): nei primi mesi del 1802 i torchi del Genio tipografico andavano preparando la nuova edizione con il consenso dell'autore, che la annunciò quale libro del suo cuore , scritto col suo sangue , e che doveva rivelare le sue opinioni, i suoi casi, le sue passioni, la sua fisiono­mia e i suoi tempi, con ingenuità, ma con pari coraggio , come scriveva al Bodoni, al quale pur raccontava di essersi lui stesso assunta direttamente l'im­presa della stampa e si essersene fatto compositore, torcoliere, proto, legatore . Uscì tra il 20 e il 24 ottobre, ed è la prima edizione compiuta dell'Ortis: a due altre il Foscolo attese ancora personalmente, sebbene in minor misura, ma non son più state da lui considerate come genuine. Contemporanee ad esse cominciò, e continuò, la ridda, indisturbata, delle edizioni spurie, cioè senza che avessero le cure o il consenso dell'autore: e non è sempre facile precisarne la crono­logia per l'assenza talvolta di ogni indicazione tipografica, e per la comunanza, in molte, della data. Di oltre 14 di esse il Gambarin ha potuto esaminare e con­frontare gli esemplari, alcuni rarissimi, sparsi in varie biblioteche italiane e stra­niere e di ciascuno ci dà informazioni esaurienti.
Noto però di passaggio che dell'edizione vercellese dovuta al tipografo Zanotti-Bianco, che il Gambarin crede tra le più rare, esistono più esemplari oltre quello conservato nella Maro celli an a : in ottimo stato è quello che ho avuto tra mano, alcuni mesi addietro, nella biblioteca civica di Vercelli. Un altro esemplare del­l'edizione del 1802, riportante sul frontispizio il ritratto del poeta scolpito dal Boggi e uscita dai torchi del Genio tipografico, di cui il Gambarin non fa parola, si trova nella biblioteca comunale di Alessandria.
Il primo Ortis, quale ora noi possediamo, era il riflesso degli anni dominati dal pensiero della morte, dalle cupe visioni, dai tormentosi conflitti interiori: materia torbida non ancora giunta a maturazione, con spunti che allo scrittore eran venuti d'oltralpe, ma con una impronta di già schiettamente personale. Alcuni motivi fondamentali torneranno, però con ben altri accenti e con altro tono, nei Sepolcri: H mito dell'illusione, le funeree figurazioni del paesaggio, il senso del nulla eterno, confortato dalla fiducia che le nostre ceneri serberanno senti­menti di pietà nei superstiti. Più complesso sviluppo di temi, sebbene più discor­dante, presenta l'edizione del 1802, la quale segna, a mio avviso, il passaggio dal tetro pessimismo e dallo scetticismo inoperoso ad una calma più riposata della mente e del cuore. Qui la passione amorosa si innesta alla passione politica e il dramma sentimentale si risolve nel suicidio. Ma Ortis non si uccide, come Werther, per un folle gesto, ma come simbolo di fedo, come teatimoniantea di eroico sen­tire. Ortis non ha perduta solo Teresa, ma ha perduta anche la patria, fatta schiava, né vi è speranza ormai che risorga. A che prò la vita? Non è vita ove non è liberta. Vi ai avvertono ancora, nella nuovo redazione, reminiscenze letterarie e atteggiamenti pedanteschi, sebbene in minor misura, e vi è ancor diffusa l'abitu­dine lacrimosa, ma l'orizzonte si è fatto più ampio e vigoroso. La stessa morte,