Rassegna storica del Risorgimento

CHABOD FEDERICO
anno <1960>   pagina <421>
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Libri e periodici 421
trèves, che costituisce il primo della bella Collana di studi cavouriani , diretta da Walter Maturi per conto del Centro di studi cavouriani Giovanni- e Margherita Visconti Venosta, (della quale è stalo recensito quello di A. Tarn borra, Cavour e i Balcani, in Rassegna, a. XLVI, 1959, pp. 95-97), non presentarci soltanto i problemi nella loro dialet-tira, ma, su quello che potremmo chiamare il palcoscenico della complessa e spesso tormentosa realtà europea ed italiana, i personaggi maggiori e minori di un vero e proprio dramma politico. Tutto un mondo si muove nelle pagine di chi aveva già dato alla storiografia italiana un'opera eccellente sulla giovinezza di Cesare Balbo e acuti saggi sul giansenismo. Dai grandi protagonisti dell'epopea garibaldina a re Vit­torio, dal Cavour ai reduci dalle galere e dagli esili borbonici, da Mazzini all'ambiente militare piemontese, da don Liborio Romano ai politici improvvisati, ai seccatori d'ogni genere, ai piaggiatori dei nuovi padroni. La cordialità oleografica dell'incontro di Teano e il pittoresco bric-à-brac dell'epopea lasciavano presto il campo alle difficoltà d'ogni genere e alle malinconiche considerazioni, accentuate le une e le altre dalla troppo spesso scarsa comprensione dei problemi nuovi da parte degli uomini del Nord, dal distacco che gli anni d'esilio avevano creato tra i fuorusciti meridionali e coloro che erano rimasti in patria, da quella che il Passerin chiama la politica romantica dei democratici, incapace di rendersi conto dei limiti opposti dalla realtà locale e inter­nazionale.
Nel 1954 un giovane storico inglese, assai benemerito degli studi sul Risorgimento italiano, il Mack Smith, in un suo interessante volume, che ha suscitato polemiche non ancora sopite (se mai, anzi, rinfocolate da altre sue interpretazioni degli uomini e delle vicende d'Italia) ha mosso fiere critiche all'azione cavouriana, rinverdendo molte delle accuse di illogicità e di immoralità già sollevate dagli oppositori democratici. L'opera del Passerin, non meno informata, ma di più serena ispirazione e sostenuta da un attento e vigilato senso storico, ci consente di far più chiara luce sul panorama e sulle azioni degli uomini. Poteva la generosa eredità del fantasma romantico e quarantot­tesco della rivoluzione senza limiti, dell'eroica cospirazione (p. 175), riscaldare ancora gli spunti democratici della propaganda elettorale del '60-'61 e Cattaneo lasciarsi andare al sogno di contrapporre alla dittatura parlamentare cavouriana un ideale ministero Garibaldi e Mazzini annunciare messianicamente la crociata delle nazioni, ma la pres­sione dell'Europa conservatrice, o liberale-conservatrice, sull'Italia era una realtà dalla quale non si poteva prescindere.
La passione di Cavour appare chiara nella sua affermazione della fine di agosto del '60: 4 Ho la coscienza di aver fatto tutto quanto si poteva fare per secondare il moto italiano. Certo non poteva e non doveva fare la parte del rivoluzionario in Sicilia. Ma la rivoluzione essendo indispensabile per rovesciare il Borbone, l'ho, non solo lasciata fare, ma l'ho favorita (p. 77). È logico che il programma politico di un ministro della monarchia sabauda dovesse essere conservatore, dovesse, cioè, basarsi su quelli che il Passerin definisce caposaldi essenziali: il primato dell'iniziativa monarchico-piemontese su quella rivoluzionaria, la conservazione del nucleo centrale dello Stato pontificio per evitare la rottura aperta con la Francia, l'esclusione d'ogni scivolamento verso un regime repubblicano-democratico, sgradito a tutta Europa, Inghilterra compresa. Ma, con quei capisaldi imposti dalla realtà, aveva saputo staccarsi dalla politica del carciofo di ristretta ispirazione regionalistica, facendo leva sulla forza rivoluzionaria dell'opinione nazionale, ricorrendo a collaboratori non piemontesi, giocando senza paura secondo la felice definizione dell'autore un gioco che nessun cauto statista di uno Stato particolare italiano avrebbe osato giocare.
E questo quando un patriota vecchio stile come Luigi Dragonctti, spaventato dal­l'incubo dei reduci dall'esilio, avidi di potere e carichi di risentimenti, e, peggiore colpa ai suoi occhi, partigiani caldissimi della fatale utopia dell'unità assoluta d'Ita­lia , andava sognando ancora una federazione sabaiulo-borhonica.
Non dobbiamo dimenticare, poi, che il conte di Cavour, il quale non possedeva una conoscenza diretta dell'Italia pari a quella, per esempio, dell'Azeglio, aveva quali