Rassegna storica del Risorgimento

ROMA ; CAPELLO LUIGI ; MUSEI
anno <1963>   pagina <576>
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Libri e periodici
Non possiamo dunque essere completamente d'accordo col curatore di questo volume quando afferma che la finanza pubblica fu costretta a vivere [nel decennio 1861-1870] stentatamente di espedienti, che recarono più male che bene allo sviluppo economico del paese (p. 3) anche perché egli non dimostra quali fossero le linee di questo sviluppo e come abbiano su di esse negativamente inciso le errate operazioni finanziarie. La verità è, anzitutto, che lo sviluppo economico dell'Italia unita era condizionato dalla generale arre­tratezza del Paese, dai suoi interni squilibri, dall'ampiezza di cure di cui aveva bisogno. Se indispensabile era dunque l'istallazione delle ferrovie e la messa in opera di lavori pub­blici di vitale importanza, altrettanto necessario era il reperimento di capitali e il loro inserimento nel circuito economico del risparmio privato, dei crediti bancari agli impren­ditori, e in un programma di investimenti a piccolo e medio raggio che avrebbe dovuto for­mare la trama del tessuto economico della nazione attraverso cui avvenisse lo svolgimento progressivo della ricchezza. Erano problemi, dunque, di produzione, di mercato, di con­sumo; problemi che dovevano essere risolti nell'ambito del sistema politico liberale e sulla base di una situazione obbiettiva quanto mai diffìcile determinata dalla rapida unificazione di sette Stati a diverso regime economico. Usciremmo, però, fuori dei limiti cronologici segnati dall'a. se differenziassimo, come sarebbe necessario, il giudizio sulle scelte obbli­gate operato in campo finanziario dai governi liberali nel corso del primo decennio unita­rio, da quello che va dato sulle speculazioni finanziarie e bancarie e sulle coperture poli­tiche fornite a gruppi industriali e finanziari a svantaggio, spesso, della collettività nazionale, nei decenni successivi. Il periodo 1861-70 ha, infatti, dal punto di vista dello sviluppo economico dell'Italia, una sua storia particolare durante la quale lo Stato si è impegnato a creare le condizioni per agevolare quello sviluppo; per tali ragioni il pro­blema finanziario del primo decennio unitario si intreccia strettamente con i problemi connessi alla costruzione dello Stato e, in oltre parole, alla sua sopravvivenza.
La ricerca di L. Izzo tende appunto a mostrare dall'interno il funzionamento del mec­canismo finanziario dello Stato e a seguirne il faticoso procedere verso la meta del pareggio attraverso l'esame dei piani dei vari ministri (Bastogi, Minghetti, Scialoja, Depretis, Fer­rara, Rattazzi, Cambray-Digny, Sella; quest'ultimo chiamato per tre volte al dicastero) i quali ruotano intorno a due provvedimenti fondamentali: l'introduzione del corso forzoso (1866) e la liquidazione dell'asse ecclesiastico che ebbe inizio nell'anno successivo. D pruno di questi provvedimenti, preso in contrasto con i principi liberistici, fu applicato per far fronte alle spese della guerra del '66 ed esercitò un'indubbia efficacia non solo ai fini di un contenimento del disavanzo che all'inizio dell'anno era di 265 milioni e alla fine rag­giungerà i 721 milioni ma anche del miglioramento della bilancia commerciale (il corso forzoso determinando un aumento nell'aggio dell'oro e della valuta pregiata, provocò un aumento dei prezzi esterni rispetto a quelli interni e quindi favorì le esportazioni eserci­tando un blando protezionismo). Tuttavia il corso forzoso ebbe delle ripercussioni nega­tive, sulle quali Va. non si sofferma, poiché il suo carattere di provvedimento straordi­nario e urgente diede, in Italia e all'estero, la misura della gravità della situazione finanziaria e rese più cauti gli investimenti del capitole straniero: l'Italia ora rischiava l'isolamento.
Nel 1867 il ministro Francesco Ferrara riuscì ad ottenere dal parlamento l'appro­vazione della legge sulla liquidazione dei beni ecclesiastici dalla cui vendita, secondo il ministro, lo Stato avrebbe dovuto ricavare la somma di 600 milioni, dilazionata nel tem­po. In questa operazione scrive l'I zzo prevalse l'intento fiscale, ma Si era certi che, implicitamente* si sarebbe raggiunto anche un fine economico-sociale. Quei beni che nelle mani degli ecclesiastici erano rimasti incolti e mal coltivati, passando nelle mani dei privati avrebbero dato un reddito maggiore; inoltre, permettendo pagamenti frazionati e a lungo termine, si riteneva di dare ai piccoli risparmiatori e agli stessi colti­vatori la possibilità di partecipare all'acquisto. Presto, però, ci si accorgerà che queste pre­visioni non si realizzeranno [....]. Quanto ai risultati economici-sociali sperati, si verificò un notevole accaparramento dei beni da parte di ehi già ne possedeva altri o di chi era in condizione di pagare le rate d'acquisto con le conseguenze di un ulteriore ingrandimento