Rassegna storica del Risorgimento

CUSTODI PIETRO; VERRI PIETRO OPERE
anno <1977>   pagina <407>
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La Storia di Milano e P. Custodi 407
X. Per la fatica di molti anni, per molte spese fatte per consegnare nelle mani de' Milanesi Tina storia leggibile della loro patria e un libro che senza rossore potessero indicare ai posteri curiosi d'informazione, io non ho avuto dalla città di Milano nemmeno un segno cbe s'accorgesse ch'io abbia scritto. Ma già lo sapeva prima di intraprendere un tal lavoro, e conosceva rerum dominos gentemque togatam. Nella Toscana, nella terraferma veneta e nella Romagna, v*è sentimento di patria e amore della gloria nazionale. Ivi almeno una medaglia, una iscrizione pubblica, un diploma d'Istorio grafo, qualche segno di vita si darebbe, se non altro per animare alla imitazione. Ma noi viviamo languendo, in umbra mortis. Non si sapeva il nome di Cavalieri, l'Agnesi è all'ospedale, Frisi e Beccaria non hanno trovato in Milano che ostacoli e ama­rezze. Il sommo bene di chi ardisce di fare onore alla patria è che ottiene la dimenticanza di lei. Io forse l'ho ottenuta... Il paese è corrotto, non v'è senso di virtù. Tali conseguenze produce un Governo cattivo, durato per secoli .
Tali e vari altri episodi, minutati dal conte Verri, potevano o dovevano far parte del mio lavoro per il proseguimento della Storia di Milano; eppure tutto omisi, sacrificando all'amore della quiete ogni fumo di boria letteraria. E non dissimulo che, dopo tante mutilazioni volontarie, mi presentai con maggior fiducia alle forbici del canonico Ferdinando Bellisomi, che prima per sorte, indi per reciproca intelligenza, fu l'unico censore delle poche cose che diedi alla stampa dopo la felice ristaurazione del Governo austriaco in queste province. Quell'uomo attillato, lezioso, officioso, la di cui perdita immatura è compianta già da quasi un anno dalle molte persone che lo stimavano, che piccolo graduato nella Chiesa, cappellano di monache e prefetto di studi, tro­vava ancora il tempo di esercitarsi nel mestiere di eunuco della letteratura, nella censura della stampa, non era già da me preferito come norcino delle mie virilità letterarie, per insperato favore, ma soltanto perché m'era gradevole di offrirmi al rasoio censorio di un uomo ben educato e di molte creanze. Né mai mi lagnai de' tagli spietati, ch'egli mi faceva, e, senza replicare, applica-vami in silenzio a raccozzare, il men male che per me si poteva, le parti di­sgiunte dalle eseguite lacerazioni. Delle quali manipolazioni farò un più esteso cenno nella parte quarta di questa Memoria, dove avrò l'occasione di discor­rere e darò qualche saggio delle gesta gloriose della Regia Censura. Né più cortese del solito mi si mostrò il buon canonico; e forse per obbedire alle istruzioni superiori, che rendevansi ognora più severe, non solo scancellò i pochissimi passi da me lasciati, ne' quali potevasi congetturare qualche rimota allusione politica di dubbio conio, ma ben anche in un sol tratto la materia di forse tre fogli di stampa, là dove io esponeva i fatti principali delle scandalose contestazioni di giurisdizione, che si agitarono tra la curia arcivescovile e il Governo spagnuolo, quasi per tutto il tempo che sedette sulla cattedra ambro­siana di Milano il primo cardinale Borromeo. A dare un saggio della severità colla quale fui corretto, riferirà l'esempio, perché breve, del cenno che per me si faceva della smania delirante della Corte romana per le novità giurisdi­zionali operate dal piccolo Duca di Parma. Parlando di quelle collere pretesche, di cui s'ebbe lo scandalo nel 1768, mi espressi come segue:
Mentre queste riforme, già da più anni introdotte nella Toscana dal­l'Imperatore Francesco I, e imitate dalla Repubblica di Venezia, eseguivansi placidamente dalla Corte austriaca nella Lombardia, vide l'Italia un fenomeno