Rassegna storica del Risorgimento
ZAMA PIERO
anno
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1984
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pagina
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349
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Libri e periodici 349
al '67 e pur esso mai inviato, risulta efficace non tanto per l'analisi della situazione concreta e dei motivi che spingono localmente al brigantaggio (niente si dice della questione demaniale, di quanto aveva operata nel '61 la famigerata colonna di repressione guidata dal Maggiore della G.N. Pecorini tra Sessa e le valli interne del Garigliano il Pecorini sarà messo agli arresti), quanto, invece, perché rivela lo stato d'animo dei proprietari locali completamente insoddisfatti sia dell'andamento della giustizia, che delle varie misure repressive poste in essere dai Governi d'Italia.
CARMINE CIMMINO
MASSIMO MONSAGRATI, RICCARDO PAOLO UGUCCIONI, Vera storia della banda Grossi; Pesato, Editrice Flaminia, 1983, in 8, pp. 223. L. 15.000.
Tutta costruita com'è su fonti ufficiali, e sulle più aride, asettiche e tendenziose delle fonti possibili, quali possono essere quelle giudiziarie, questa, che appunto perciò ambisce a definirsi vera storia , non riesce a sottrarsi al fascino della leggenda in grazia della quale, da centoventi anni a questa parte, sostanzialmente nell'intero aspro retroterra di Pesaro ed Urbino, nei confronti di Terenzio Grossi, l'aitante capobanda assassinato a tradimento, né due guerre mondiali né una lotta partigiana hanno creato, fra queste colline, una figura a lui paragonabile .
Messo da parte il populismo ribellistico di maniera, smontato il cliché del brigante onesto e restauratore della giustizia, mute le fonti sulle suggestioni dell'ambiente e sulle eventuali motivazioni autentiche, profonde, di tanti delitti, non dovrebbe rimanere in piedi, appunto, se non il delitto in quanto tale, magari come sfogo del fallito, dello spostato, dell'emarginato, ma insomma sostanzialmente come una scaramuccia di retroguardia di un mondo al tramonto rispetto ad una realtà, repressiva quanto si voglia, ma efficiente, aggiornata e moderna.
Non è così: e l'avvicinamento di Grossi ad un don Chisciotte del legittimismo come il generale Pimodan, morto a Castelfidardo con l'onore delle armi, chiude un circolo dei quale è protagonista l'insorgenza, il tradizionalismo, un'etichetta rispettabile, in poche parole, ancorché conservatrice, non certo il brigantaggio, e tanto meno la delinquenza.
È sufficiente la documentazione ufficiale ad una conclusione del genere? È possibile fare di Grossi un eroe della Vandea anziché un erede dimidiato del Passatore? Direi francamente di no: e non bastano gli stemmi sabaudi abbattuti o il richiamo al sovrano pontefice ad autorizzare a concludere diversamente.
Dietro Grossi, a parte l'esiguità della banda, ben lontana dalle moltitudini meridionali e dalia rete inestricabile del manutengolismo d'alto bordo, qui malamente sostituito da qualche prete strozzino di campagna, non ci sono che i problemi consueti dell'unità piemontese, la leva, innanzi tutto, e poi le tasse, la libertà di commercio, l'abolizione dei privilegi e delle discriminazioni, l'Italia moderna, insomma, a cui Grossi si ribella istintivamente, negativamente, per quel gusto individualistico del rischio, dell'avventura, soprattutto del protagonismo, che in un primo momento lo aveva coerentemente spinto tra i garibaldini.
Dietro Grossi non ci sono lo sfasciamento di un intero Stato e di un grosso esercito.