Rassegna storica del Risorgimento
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1984
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470
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470 Libri e periodici
50 della superficie censita dell'intero Lazio, era passato, intorno al 1864, al 32 circa. Ciò significa che un regime immobilistico quale quello pontificio aveva fatto registrare in un sessantennio (che in realtà era un quarantennio, decisivo risultando a tal proposito il periodo dagli anni Venti agli anni Sessanta) parecchio di più degli scarsi ed episodici progressi individuati a suo tempo dal Villani in questo settore. Su quali basi ed entro quali limiti la Caffiero perviene a questa conclusione? Il suo punto di partenza, quello che le fornisce gli elementi materiali sui quali impostare la propria analisi, è un inedito Prospetto generale delle servitù di pascolo dello Stato (ora conservato in Archivio Segreto Vaticano) compilato nel 1822 dal Nicolai sulla scorta dei dati di un censimento trasmessogli con qualche apparentemente non significativa lacuna dalle varie delegazioni del Lazio, esclusa la Comarca. Il punto di arrivo, ciò che consente ali'A. di affermare che dal 1822 al 1864 il peso dello jus pascendi scende in media di almeno il 36 rispetto ai valori iniziali (p. 102), è invece un rapporto preparato nel 1864 dalla Presidenza del Censo in funzione di una progettata revisione catastale e conservato nell'Archivio di Stato di Roma. In mezzo a questi due punti fermi si colloca poi tutta la lunga discussione fra sostenitori ed oppositori dell'abolizione degli usi civici, una discussione cominciata con le prese di posizione, prò o contro, del Vergani, dell'Odescalchi, del Buttaoni, del Falzacappa, punteggiata dalle molte vertenze cui l'irrisolto problema diede la stura soprattutto nel Viterbese, culminata infine con la famosa Notificazione del 1849 a firma di Nicola Milella che dava impulso ad un processo di progressiva estensione e consolidamento della proprietà borghese peraltro già messo in moto da precedenti interventi legislativi. E la discussione rivelò parecchie cose sorprendenti: tra l'altro che, in base alle esperienze fatte localmente, non sempre rispondeva a verità, come sostenevano gli abolizionisti, che i terreni liberati erano messi a coltura con conseguente miglioramento della produzione agricola, perché, al contrario, i proprietari trovavano più redditizio affittarli ai grandi allevatori dì bestiame; cosi pure sì apprese che in molti casi quegli stessi personaggi che si battevano per la liberazione dei propri terreni avevano tutto l'interesse a che il regime collettivistico permanesse sulle terre delle Comunità al fine di poterne godere con un affitto a basso costo: da tale punto di vista l'erba dei poveri era in realtà soprattutto l'erba dei ricchi che traevano i maggiori vantaggi dai pascoli comunali (p. 75) e che all'occorrenza si facevano scudo del malessere dei poveri per difendere le proprie posizioni. Ciò può dare un'idea di come fosse intricata la questione, che era di quelle in cui torto o ragione (se è lecita questa semplificazione) non stavano completamente da una parte o dall'altra ma si intersecavano a formare un groviglio che aveva come risultato l'inerzia legislativa: aveva ragione Vergani ma non avevano del tutto torto De Luca e Buttaoni; e in mezzo, come l'asino di Buridano, c'era l'amministrazione pontificia, combattuta tra volontà riformatrice e timore di colpire le masse contadine più indigenti, e incerta tra il modello pastorizio della tradizione e quello fisiocratico imposto dalla nuova cultura agraria. Che essa, finché fu possibile, decidesse di non decidere è cosa che può meravigliare solo entro certi limiti, quando si pensi che neppure l'occupazione napoleonica era riuscita ad incidere su di un panorama economico dal quale le forze borghesi, le più interessate alla creazione di nuovi rapporti di proprietà, erano guai del tutto assenti.
Il punto è proprio questo, e la Cannerò, dopo averlo a più riprese richiamato, lo ribadisce a conclusione del suo lavoro chiarendo il senso in cui va inteso il suo riconoscimento della capacità dello Stato pontificio di affrontare questo specifico problema e cercarne la soluzione: soluzione che fu ritardata ed ostacolata dalla lentezza e dalla incertezza dei processi economici e sociali del paese, e in particolare della regione laziale (p. 103). F più o meno, sempre per restare in ambito pontificio, quello che successe con le ferrovie: quando Pio IX emanò la notificazione che ne autorizzava la costruzione furono in molti a rallegrarsene per le prospettive di progresso economico che essa apriva, almeno nel-Hmmediato: i liberali e l democratici, invece, sapevano benissimo che i treni avrebbero fatto viaggiare la gente con maggiore celerità, che avrebbero fatto circolare egregiamente le idee, che avrebbero facilitato i contatti fra quanti si occupavano attivamente di politica, ma erano anche convinti che sarebbero venuti meno alla loro funzione principale, quella di dare una spinta alla vita produttiva del paese, perché, come notò Mazzini, attività commerciale interna negli Stati romani non esiste quasi affatto, e brevi tratti di ferrovia