Rassegna storica del Risorgimento

GHISALBERTI ALBERTO M.; ISTITUTO PER LA STORIA DEL RISORGIMENTO
anno <1986>   pagina <447>
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Ricostruzione dell'Istituto e congressi 447
che accadde per la rievocazione dell'* incontro di Teano , tra Vittorio Ema­nuele e Garibaldi, incontro di cui la nuova disposizione dei comuni negava fosse legittimamente così chiamato, dovendo esso prender nome dal comune dal quale dipende oggi la località precisa di esso, che sarebbe, secondo i suoi reggitori municipali, Vairano Patenora; qui fermarono i congressisti; né si contentavano del limitato nome preciso della località, ma volevano annettere la località stessa al comune più vasto di cui aveva finito per far parte allontanandola ancor più da Teano. L'argomento di puro buon senso, che conseguentemente si sarebbe dovuta riformare una denominazione come la Disfida di Barletta , che pure era stato fattore attivo nella vita stessa risorgimentale, perché in realtà il terreno della disfida si trovava ora in territorio di Corato, non poteva nulla contro il desiderio smodato di una gloria municipale. Ma Ghisalberti, con il codazzo (o il corteo) dei parteci­panti al convegno incontrò poco più in là altra folla di manifestanti che lo fermò a Teano. Come se la sarebbe cavata il professore a celebrare ancora l'incontro, senza smentire se stesso? Ma niente paura; anche qui Ghisalberti parlò, evocando l'antica Grecia, in cui molte città si contendevano la gloria di aver dato i natali a Omero; e questo dimostrava che il fascino dell'evento storico era presente anche 'lì dove aveva preso ora la parola, malgrado ogni possibile contestazione.
Né basta, quando si parli della capacità che Ghisalberti possedeva di non offendere gli umori locali, rifiutando alle loro richieste l'incanto della sua parola. Il caso più clamoroso si ebbe a Giardini, presso Messina, dove si passava alla fine di una gita del congresso, li venne fermato verso mezzanotte da un gruppo, che lo pregava caldamente di prender la parola, davanti al monumento di un medico, di cui non c'era da saper altro se non quanto ne diceva la lapide, asserendo che si era dedicato alla cura dei suoi concittadini. Neppure allora il Ghisa si scoraggiò indicando come il Risorgimento avesse posto le premesse perché la cura della pubblica salute fosse non più affidata al caso, ma divenisse premessa del dovere pubblico.
Non vorrei che da quanto ho detto si ricavasse la conclusione che dote del Professore fosse solo una voce melodiosa all'occasione autoironica, o un uomo di spirito. C'era in lui la capacità di soffrire per la sua vocazione; e fu una capacità a lungo esercitata, fino a logorare la sua fibra, pure solidissima. Me n'ero reso conto già al convegno che tenemmo a San Marino, quando lo vidi uscire (sembrava gigantesco) dalla macchina guidata da Emilia Morelli: maniche di camicia, bagnato fino all'osso, con una tempe­ratura di parecchi gradi sotto lo zero (ancora il giorno dopo rimasero intatti i ghiaccioli che, come stalattiti, s'eran formati sui balconi). Così, sempre, si prodigava.
Per anni e anni (ciò che probabilmente contribuì a far sì che la pur robustissima fibra alla fine cedesse) egli dovette rinunciare a usare l'ascen­sore del Vittoriano (il vecchio storico ascensore di mogano) per raggiungere la spianata dell'Aracoeli, da cui pure un altro cigolante ascensore portava al piano superiore, alla sede dell'Istituto, dei suoi archivi e delle sue biblio­teche. C'era una classica ragione italo-bizantina di questo: a chi toccava la riparazione dell'ascensore? al Ministero dei lavori pubblici o alla sopriten-denza artistica di Roma? Ghisalberti, salendo e soffrendo, non veniva meno al suo dovere mai, né al suo buon umore (né, quando si trattasse delle cene