Rassegna storica del Risorgimento

GHISALBERTI ALBERTO M.; UNIVERSIT? DI ROMA FACOLT? DI LETTERE E
anno <1986>   pagina <504>
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504 Jole Vernacchia Galli
cuscinetti a sfera muniti di qualsiasi materiale infiammabile imbevuto di benzina ed acceso prima del lancio, per tacere ovviamente delle vere e proprie bombe Molotov . Il fronte studentesco, come accennavo, appariva già a quell'epoca spaccato: da un lato gli autonomi (prima, però, che tale definizione assumesse un preciso valore semantico) i quali gestivano la contestazione in proprio, secondo ideali già chiaramente illusori; dall'altro gli impegnati, che portavano avanti la contestazione sempre più secondo gli ordini delle varie scuderie di partito; ad essi aggiungendosi la maggio­ranza degli iscritti, coagulatasi intorno al grosso nucleo dei fuori sede e che, dopo una prima acritica solidarietà, aveva fatto partito a sé in difesa dei propri contingenti egoismi: maggioranza che, come era prevedibile, ebbe un ritorno di fiamma al tempo del voto politico. Non è questa la sede per tentare un'esegesi anche superficiale del fenomeno, ma a febbraio 1968, a chi scrive ora e vedeva allora le cose da quell'osservatorio privilegiato che fu la Segreteria studenti della Facoltà di Lettere, parve chiaro che la contestazione correva ormai sul piano inclinato degli equivoci: le agitazioni degli studenti, acquistata una cadenza ripetitiva e liturgica, apparivano senza sbocco, totalmente incapaci di una qualsiasi evoluzione; l'impotenza accademica ed i destreggiamenti governativi incapaci di contrapporre altro che non fossero promesse fumose di future riforme, apparivano fra l'altro in reciproca disarmonia su quel terreno della discordia che, in Italia, consiste nel riconoscimento e nell'assunzione delle proprie responsabilità. Il tutto, dicevo, in virtù, di una serie di equivoci che non risparmiava nessuno ed era frutto di una generale incultura tanto che potettero inserirsi quegli studenti alto-borghesi in vena di bravate di cui parla Eugenio Scalfari nel suo recentissimo volume e che provocarono il poetico sdegno di Pier Paolo Pasolini.
Il 5 febbraio 1968 il Rettore D'Avack, a metà della scalinata esterna dell'Aula Magna, parlò agli studenti sacrificando in ottima fede all'equivoco che impastoiava le autorità accademiche. Seguirono insulti e incidenti a conferma del fatto che non si trattava, o non si trattava più di discutere democraticamente e democraticamente risolvere problemi precisabili e con­creti, ma al contrario tali iniziative apparivano ai sommovitori ed ai som­mossi come la peste peggiore per quella loro rivoluzione che, solo per un altro equivoco, poteva essere postulata e definita come permanente. Che senso poteva avere parlare di responsabilità a dei deresponsabilizzati? Che speranza di successo poteva avere una cura che si fondava su una diagnosi pregiudicata dal difetto di anamnesi? Il giorno 6, riunitosi d'urgenza il Senato Accademico (Cencetti, Cimmino, D'Addario, Donati, Ghisalberti, Marconi, Nicolò, Onorato, Parolini, Petrocchi e Rossi Fanelli; assenti Broglio e Resta) si discusse dei fatti del giorno precedente e fu in questa occasione che Ghisalberti parlò per la prima volta di dimissioni. Il verbale del Senato non registra tale intenzione mentre la notizia si desume dal verbale del Consiglio di Facoltà del 23 successivo dove è riportata integralmente la lettera inviata da Ghisalberti a D'Avack il giorno 23 di quel mese: in quella lettera si legge infatti: ... come ho confermato nel mio telegramma di iersera ho preannunciato le mie dimissioni da Preside ...fin dalla seduta del Senato Accademico del 6 febbraio... . Ci si chiede perché il verbale del Senato omise tale annuncio, e forse la spiegazione sta in ciò: Ghisalberti comunicò indubbiamente le sue intenzioni, dovette seguire una discussione,