Rassegna storica del Risorgimento

Commemorazioni. Matteo Fantasia
anno <1994>   pagina <538>
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Libri e periodici
frettate prese a tavolino. Ma non è detto che l'intendente (Augusto Turgis) e lo stesso ministro del Culto (Francesco Ricciardi) fossero molto condiscen­denti a cambiare piani o opinioni, anche se a far pressione su di loro, in modo diretto o indiretto, erano non solo i sindaci, ma anche i vicari capito­lari, i vescovi ed altri autorevoli personaggi.
Sulle molte soppressioni dei tempi di re Giuseppe mancano per lo più veri e propri verbali, anche perché forse non si era ancora preparati all'ope­razione. Ciò si ripercosse più di ima volta sulla tenuta degli edifici lasciati dai frati, che divennero preda di sciacalli o andarono in rovina in poco tempo. Le cose, al contrario, migliorarono, a cominciare dalle consegne, con l'ondata eversiva del 1809, quando tutto fu più oculato. Basti pensare solo al numero dei verbali compilati per ogni convento: sette inventari e due stati . Le stesse operazioni si ripeterono, su per giù, con le riduzioni dei conventi fran­cescani del 1811, salvo il fatto che tutto fu più semplice.
Queste complesse operazioni che, tenuto conto anche delle soppres­sioni del 1807, portarono alla chiusura in Capitanata di 35 conventi di possi­denti e 25 di non possidenti traspare nel capitolo dedicato alla cronaca delle soppressioni, in pratica alle schede dei singoli casi. Si tratta, nonostante la modestia con cui è disegnata, di una delle parti più nuove ed interessanti per chi legge, quella che spinge anche a esprimere qualche impressione per­sonale.
Una prima impressione riguarda la popolazione dei conventi inventariati. È una popolazione di gran lunga al di sotto delle capacità abitative dei sin­goli edifici. I/O scarto tra tali capacità e i frati realmente presenti in convento all'atto della soppressione è talora impressionante: 6/20 (osservanti di Troia), 6/25 (cappuccini di Lucerà), 2/15 (cappuccini di Manfredonia). Come spiegare questo fatto? La cosa andava addebitata ai frati e alle loro strategie o a una valutazione dovuta alle popolazioni interessate? Certo, in Capitanata non si verifi­carono i fenomeni di sovraffollamento di cui negli stessi anni dava prova Napoli.
Un'altra considerazione riguarda il patrimonio librario dei conventi, in genere abbastanza cospicuo. Colpisce, tra l'altro, il fatto che i francescani mendicanti, per lo più privi di beni, abbiano quasi sempre un discreto patri­monio librario, il che non può trascurare chi voglia dare un giudizio sul loro peso culturale nella zona.
Un altro confronto da fare riguarda le aziende agricole, che, nel nostro caso, interessano i soli redentoristi di Deliceto (inventariati, ma non soppressi). Il paragone possibile, questa volta, concerne i conventi domenicani baresi di Andria e Gioia del Colle, anch'essi provvisti di molti capi di bestiame e di relative derrate. Questo vuol dire che la crisi che aveva messo in ginocchio i religiosi all'inizio del Decennio era tenuta lontana da qualche convento pugliese.
Interessantissima è poi la tecnica comune (come se ci si fossero accordati prima) per far breccia sulle autorità pubbliche, in genere l'intendente e il ministro del Culto, nell'intento di far depennare il proprio convento dal­l'elenco di quelli destinati a scomparire. Sindaci, vicari capitolari e vescovi esaltano il servizio religioso-civile dei padri (con l'assistenza spirituale, l'istru­zione, le farmacie, i lanifici tenuti dai cappuccini) e nello stesso tempo fanno un quadro pauroso delle condizioni degli edifici, parlano dell'assoluta inutilità di requisirli ad uso pubblico, sottolineano il nessun valore dei beni che hanno (per esempio i quadri), descrivono a foschi colori i pericoli cui i conventi sarebbero andati soggetti una volta abbandonati dai frati. Da notare infine, a parte gli abusi di cui furono accusati specialmente gli agenti dei demani e qualche rivolta dei frati (p. 69), l'assenza dall'operazione di quel risvolto and-